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Bulimia: pieno e vuoto

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Il pieno e il vuoto della bulimia



La bulimia è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato da frequenti abbuffate seguite dai cosiddetti comportamenti compensatori quali digiuno, vomito autoindotto, abuso di lassativi e diuretici, frenetica attività fisica.


Il mangiare grandi quantità di cibo, preferibilmente di nascosto, mescolando dolce e salato, caldo e freddo, rappresenta un rifugio da una sofferenza interiore che non trova altre forme di espressione e costituisce pertanto un baluardo di difesa nei confronti di emozioni e stati d’animo non facilmente riconoscibili.
La bulimia è una condotta estrema per trovare una risposta immediata all’insaziabile fame d’amore che il soggetto bulimico sperimenta in se stesso e che non trova nel mondo un’adeguata risposta.
Le persone che soffrono di bulimia hanno una forte carica emotiva e una ricchezza interiore che loro stesse non sanno riconoscere. Il movente principale del loro stato scaturisce da una singolare dinamica psichica, incentrata sulla ricerca dei valori più nobili. Rifiutano tuttavia di aprirsi agli altri perché non li ritengono in grado di comprendere la loro sensibilità. Tagliando così ogni comunicazione con il mondo, il cibo diviene l’unico referente esterno perché è sempre a portata di mano, non tradisce, non giudica, non abbandona mai. Nel disperato tentativo di riempire un abissale vuoto interiore, il soggetto bulimico si sente costretto a ingerire enormi quantità di cibo.
Citando le parole di una paziente: “Il vuoto è qualcosa di impensabile, di inaccettabile, in quanto rappresenta il tempo che passa. La bulimia riempie il tempo, perché tutto il cibo diventa immediatamente presente. E’ qualcosa di frenetico, di distaccato dal tempo… è una fuga dalla realtà…”.
Cercando di riempire il vuoto di senso dell’esistenza, la bulimica approda alla dimensione del “non esserci”. Il cibo divorato è considerato una “cosa”, un “altro da sé”, e va quindi eliminato per liberarsi di “ciò che non sono io”. E’ una sfida al “non esserci” per “essere”. L’esistenza si cristallizza così nella rigida alternativa tra ingrassare e dimagrire, mangiare e vomitare.
Dopo l’abbuffata, il soggetto bulimico sperimenta un profondo senso di colpa derivante dal fallimento del suo bisogno di controllare se stesso e il mondo. Ha ceduto al cibo, a questo nemico sconosciuto che attira, irretisce, non dà pace… diventa necessario liberarsene. Ed è così che viene attivata la dinamica pieno/vuoto, tipica della bulimia.
In un primo momento, il cibo è cercato, divorato, consumato, perché serve a colmare un profondo e inaccettabile vuoto esistenziale. Il pieno del cibo rappresenta un tentativo estremo di garantirsi tutto l’amore del mondo: ogni boccone assume il valore di una speranza, di una domanda d’amore, una domanda senza fine che sfocia nella cosiddetta “orgia alimentare”. Si tratta di una mera illusione!
Successivamente, la bulimica si rende conto di aver riempito il suo corpo e non la sua anima; il cibo ingerito diviene presto un fardello, un pieno intollerabile. Il bisogno di liberarsene, di vomitare, è finalizzato a ristabilire il vuoto esistenziale, un vuoto che non può essere materialmente colmato e che deve pertanto trovare altre vie di soddisfazione. Liberarsi del cibo serve a ristabilire l’onnipotenza originaria, il controllo sulla realtà.  
La bulimia è un grido estremo, una forma compulsiva di comportamento messa in gioco al fine di rivendicare un bisogno propriamente umano di comprensione, ascolto, amore.
E’ pertanto fondamentale che questi soggetti compiano un percorso psicologico di conoscenza interiore, finalizzato a mettere in luce le dinamiche, il più delle volte inconsce, che sottostanno a un rapporto patologico con il cibo. I pazienti con disturbi del comportamento alimentare vanno messi nella condizio¬ne di riconquistare la propria individualità, separandosi da un mondo arcaico e fusionale. Il loro originario bisogno di fusione totale viene in un primo momento proiettato sul terapeuta. Occorre, con il tempo, avviare un processo di separazione dal terapeuta stesso, affinché i pazienti giungano alla conquista di un’autonomia affettiva.
Attraverso una buona relazione terapeutica, che ricalchi simbolicamente il primo legame, è possibile ricostruire il valore dell’amore, di un amore terreno. Il terapeuta, manifestando un’accettazione incondizionata, toglie al cibo ogni potere, sostituendosi ad esso. Il cibo viene così a perdere il suo valore simbolico, di catalizzatore delle emozioni, e il soggetto ritrova in se stesso la libertà di cercare altrove una risposta al senso dell’esistenza...


Tratto dal libro: “Il cibo dell'anima”, di Arianna Nardulli, edizioni Centropsiche, 2010 (su concessione dell’Autore)

 
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